Oggi, 3 dicembre 2021, si celebra la giornata internazionale delle persone con la disabilità.

Nel corso degli anni sono state istituite ricorrenze di ogni tipologia, con il risultato  paradossale di fare passare in secondo piano l’importanza di ciascuna di esse e di sminuirne il senso e il significato e facendole diventare ogni volta  una tra le tante. In tal modo, ricorrenza dopo ricorrenza, si rischia seriamente di infondere in tutti noi la convinzione che non sia necessario istituire un momento specifico e che i ricordi vadano perpetuati quotidianamente, ottenendo, però, l’effetto  contrario di indifferenza.

Io per primo, seguendo meccanicamente e  inconsciamente questo ragionamento, nel corso degli anni ho fatto passare in sordina questa giornata.

Dopo anni di esperienza lavorativa penso che ora sia arrivato il momento di  interrogarmi su quale sia per me il modo migliore, non banale né retorico, per vivere al meglio e consacrare questa ricorrenza: sono giunto alla conclusione di esprimere e condividere nero su bianco alcuni brevi spunti di riflessione, partendo proprio dall’analisi del suo significato.

La dichiarazione dell’ONU recita che la giornata mira a sensibilizzare sulla comprensione dei problemi connessi alla disabilità  e sull’impegno a garantire la dignità, i diritti e il benessere delle persone con disabilità.

Innanzitutto si parla di persona con disabilità, nel senso che ognuno è potatore della propria individualità, specificità e unicità e non viene identificato né definito esclusivamente dalla propria condizione, non trattandosi quindi di anonimi elementi di una categoria e di un gruppo.

Ogni persona si compone, in maniera sistemica, di più sfere interconnesse: organica, fisica, psicologica, emotiva, relazionale-sociale; ciascuno è, insomma, portatore di un proprio vissuto, di una propria storia e bagaglio personale. Di conseguenza, sia che si parli di approccio, di presa in cura o carico, la prospettiva più funzionale ed efficace  non può che essere quella multidisciplinare, in cui ogni attore, sociale o professionale che sia,  agisce  il suo  ruolo per  il  proprio ambito di  competenza specifica nell’azione collettiva.

Si parla poi di garantire il benessere, e  su questo siamo tutti d’accordo. Il concetto può sembrare molto semplice all’apparenza ma in realtà nasconde dietro di sé  insidie e criticità, è di non facile definizione: si presta a interpretazioni soggettivi, a diverse declinazioni a seconda dei livelli e contesti di riferimento, risulta influenzato contaminato dalla cultura sociale del momento, ed è di conseguenza  molto difficile da valutare e misurare.

Questa ahinoi è una delle più spinose e annose questioni che accompagna il mestiere dell’educatore per tutta la carriera, dagli esordi della vita professionale fino alla pensione.

I manuali di pedagogia speciale ci spiegano che il termine benessere racchiude tutto l’universo della vita umana, inclusi aspetti fisici e sociali, che costituiscono quella che può essere intesa come “buona vita”, che diventa l’orizzonte comune per tutti. Tale definizione si articola, naturalmente, in modo diverso a seconda della soggettività del singolo operatore e dei contesti  in cui si opera (centri diurni, residenziali, scuola, …): la vera sfida quotidiana è trovare un minimo comun denominatore all’interno del lavoro di equipe.

Inoltre permangono sempre notevoli difficoltà su come interpretare il benessere di chi non è per nulla, o lo è solo in parte, in grado di esprimere i propri bisogni e dipende parzialmente o totalmente dagli altri: con gli ospiti che parlano e riescono a darci elementi di comprensione, può essere più semplice; con gli ospiti più gravi anche a livello cognitivo dobbiamo essere capaci di basarci, certo, sull’osservazione, fare una valutazione con gli elementi a disposizione, ma poi, ad un certo punto, dobbiamo decidere. E il riscontro relativo a questa nostra decisione non sempre è facilmente misurabile.

Ne consegue che noi educatori ed operatori socio-sanitari  abbiamo  nelle nostre mani una grossa responsabilità, che  deve essere ben gestita per non varcare quel labile confine che la fragilità dei nostri ospiti traccia e che può trasformare il prendersi cura nel potere di gestire gli altri. È proprio il dover decidere il meglio per un’altra persona, la responsabilità di cui prendiamo gradualmente coscienza e consapevolezza  nel corso della vita professionale e che agiamo quotidianamente , attraverso l’esperienza, l’ascolto, il confronto dialettico dei vari punti di vista e un mix di buon senso e teoria.

Il 3 dicembre nelle riflessioni dell’educatore Thierry Averna