A., 6 anni. Quando lo incontro la prima volta  non ha ancora imparato a parlare, non gioca spontaneamente con i suoi compagni e sembra non essere interessato a nessuna attività proposta.
Se gli faccio il solletico ride sonoramente, con tutta la voce squillante che ha, diventa rosso in viso e cerca la mia vicinanza. Prima di fare il solletico anticipo il mio intento, muovendo le mani nell’aria e poi: pronti, partenza, via con le coccole gustose! Dopo qualche settimana A. mi stupisce: appena mi vede muove in cielo le mani, proprio come faccio io e mi guarda, forse è la prima volta che lo fa; ci troviamo subito e la nostra piccola routine non esita a tardare: ci siamo capiti !

C., 12 anni. È  un ragazzino abbastanza autonomo nella frequenza scolastica, infatti ha acquisito tutte le competenze didattiche dei pari ed è molto bravo anche nello sport, ma spesso non capisce cosa lo “fa escludere” dall’incontro con i suoi amici. Un giorno mi guarda, anche lui difficilmente lo fa, e, con un sorriso furbetto, butta lì una frase sentita da altri . Ridiamo insieme complici, ma subito dopo cerca conferma: “ho fatto una battuta, vero?”. È una piccola cosa che riesce sempre ad emozionarmi: C. sta scoprendo che esistono più livelli di scambio comunicativo e si sta esercitando con me e io lo seguo, in questa sua sperimentazione. Anche in questo caso, in quell’istante lì, ci siamo capiti !

Sono molti gli esempi di successi emozionanti quotidiani raggiunti insieme ai bambini che incontro o ho incontrato, sempre preceduti o seguiti da situazioni difficili che esprimono una sofferenza indicibile.

G., 2 anni e mezzo. La incontro per la prima volta a casa sua. La mamma parla con me mentre la bambina le indica distrattamente il cellulare. La mamma non può consegnarglielo perché privo di batteria e le dice “no”. G. inizia a correre e sbattere la testa contro i muri della casa in una escalation di comportamento davvero difficile da sostenere. La mamma piange; la bambina si ferma: sono entrambe esauste per questa sofferenza.

Quando mi chiedono come sono i bambini con autismo, mi vengono in mente tutti e tutti sono diversi.
Dovrei raccontare ognuno dei bambini che ho conosciuto, ognuno con storie differenti, caratteri diversi con i quali a volte è semplice entrare in relazione, a volte no. Il denominatore comune,  è che ciascuno di loro, immagino, si sente non capito.

Una diagnosi di Autismo è un quadro clinico complesso che di fatto racchiude profili neuropsicologici, competenze, personalità, comportamenti, attitudini, infiniti che si muovono lungo uno “spettro” di situazioni possibili accumunate da due aree di deficit riscontrati in sede di diagnosi: il “deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale”, rilevato in molteplici contesti e  “Pattern di comportamenti, interessi o attività ristretti, ripetitivi”.
In queste situazioni la gravità della compromissione sociale varia notevolmente da un bambino all’altro rendendo difficile, forse, lo sviluppo di una comprensione chiara da parte della comunità, della “questione autismo”.

Per me, ciò che oggi chiaro è il senso di solitudine, sperimentato dai bambini ma soprattutto dalle loro famiglie: nei colloqui con i genitori, qui a La Casa di Sophia, “il non essere capiti” ed il “sentirsi soli” mi arriva come una condizione concreta vissuta quasi da tutti.
Questa sensazione nasce fin da subito, ancor prima di trovare risposte ad alcune preoccupazioni o dubbi.
Il percorso di ricerca di un significato alle fatiche dei figli e alle preoccupazioni dei genitori si articola in modo diverso da caso a caso e l’arrivo della diagnosi è per ciascuno un momento intenso che segna drasticamente la singola storia familiare: le famiglie devono iniziare ad approcciare un mondo completamente sconosciuto.
Alcuni raccontano di essersi sentiti sulle spalle un macigno insostenibile, una nuova immagine del loro figlio con cui confrontarsi, che rende incerto e faticoso il benessere futuro; alcuni, pur nella consapevolezza delle difficoltà che il proprio figlio manifesta, non si riconoscono in una definizione così netta e con implicazioni così importanti; altri, invece, si sentono per così dire “sollevati” dall’aver potuto finalmente “dare un nome” ad un quadro di deficit che osservavano da qualche tempo.

Dopo la diagnosi, abbiamo visto sorgere mille domande che generano emozioni e preoccupazioni differenti: cosa dobbiamo fare ora? Come possiamo aiutare nostro figlio/a? Come sarà da grande? Cosa non ho visto prima? In cosa sbaglio nella relazione con lui/lei? Cosa fare adesso?

Dopo la diagnosi, iniziano anche le questioni burocratiche, le richieste di aiuto alle istituzioni (su più livelli) che si intrecciano alle quotidiane gestioni educative e relazionali di ogni singola famiglia.

Vi sono famiglie con bambini, che presentano una compromissione sociale importante, che, oltre al carico organizzativo ed emotivo privato, si sentono fortemente incomprese perché ritengono non vi siano sul territorio risorse adeguate ad attivare percorsi di riabilitazione intensivi che, a loro avviso, potrebbero aiutare i bambini a raggiungere alcune di quelle competenze non ancora acquisite: il linguaggio, la capacità di entrare in relazione con l’altro, competenze cognitive ma anche quelle emotive come il riconoscimento delle emozioni proprie o altrui.
Vi sono famiglie che si sentono abbandonate dalle istituzioni durante le diverse fasi di vita. La questione età è un tema ricorrente e molti genitori riportano come gli interventi territoriali siano circoscritti alle prime fasi di vita dei bambini, legate alla scuola primaria, dopo la quale spesso viene percepito un senso di vuoto ed abbandono. In alcune situazioni il rapporto con le istituzioni diventa faticoso: cambiamento di insegnanti continuo a scuola, diagnosi tardive, lunghe liste di attesa per la riabilitazione.
Vi sono famiglie con situazioni apparentemente meno compromesse che però sentono di doversi sempre scontrare con l’incomprensione dell’altro. Famiglie che riportano di dover gestire, in diversi momenti, dei misunderstanding rispetto ai comportamenti dei figli. Figli con una bassissima tolleranza alla frustrazione legata a cambiamenti di “schemi cognitivi” precostituiti, oppure ragazzini che faticano nell’attivare comunicazioni con l’altro e pertanto non rispondono alle domande o rispondono in modo bizzarro.

Sono quelle famiglie che spesso mi raccontano di avere la zia di turno che ha sempre qualcosa da rimproverare: “siete voi a dagliele sempre tutte vinte!” oppure “se tu fai così lui ovviamente non ascolta!” o ancora “povero bambino lascialo un po’ fare!”: frasi che mettono in discussione le modalità genitoriali in famiglie che devono combattere per capire in primis i propri figli e, poi, “spiegarli” anche agli altri, che tanto poi comunque non sempre riescono a capire.

Il 2 aprile ricorre la giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo. Credo che queste ricorrenze servano a ricordare che ogni giorno è un po’ “quel giorno lì” e che una famiglia con un bambino autistico ha bisogno di avere attorno a sè, sempre, una comunità consapevole a cui chiedere più comprensione e maggior cura.

Mara Colnago –  Psicologa del Centro Educativo Diurno “La Casa di Sophia”